Dall'Espresso, giugno 2008
Scritto da Redazione   
venerd́ 20 giugno 2008

 (perchè Berlusconi &C non gradiscono le intercettazioni...ndrmsirca)

Spazzatura Spa 

"Non creiamogli problemi assolutamente per nessun motivo", tagliò corto Malvagna. Che poi aggiunse: "A noi non ce ne fotte un cazzo. Ci denunciassero, non ti preoccupare. Ci denunciassero, te li ho dati io gli ordini". Quali ordini? Eccoli: "Quando ti dicono di
fare entrare la roba gli devi dire venite, ma la metti per terra, la metti nel piazzale, la metti dove cazzo vuoi"....

dall'Espresso
giugno 2008

Spazzatura Spa
di Vittorio Malagutti
I contratti milionari per termovalorizzatore e cdr. Le accuse dei pm. L'arresto dei manager. Così Impregilo finisce travolta dal ciclone rifiuti

La vigilia di Natale del 2007 Napoli affogava nei rifiuti. Come il Natale precedente. E quello prima ancora. Ma Massimo Malvagna, il top manager di Impregilo responsabile del business (si fa per dire) Campania, aveva altri problemi per la testa. Non era affar suo se le discariche erano piene fino all'orlo e la monnezza non si sapeva letteralmente dove nasconderla. Lui doveva salvare il bilancio dell'azienda. Doveva evitare che il disastro campano aprisse uno squarcio da decine di milioni nei conti del più importante gruppo italiano di costruzioni. Così, quel maledetto 24 dicembre 2007, Malvagna chiamò il suo collega Filippo Rallo. Non era una telefonata di auguri. E Rallo se ne accorse subito. "Non creiamogli problemi assolutamente per nessun motivo", tagliò corto Malvagna. Che poi aggiunse: "A noi non ce ne fotte un cazzo. Ci denunciassero, non ti preoccupare. Ci denunciassero, te li ho dati io gli ordini". Quali ordini? Eccoli: "Quando ti dicono di
fare entrare la roba gli devi dire venite, ma la metti per terra, la metti nel piazzale, la metti dove cazzo vuoi".

Fin qui le telefonate intercettate e finite agli atti dell'ultima inchiesta dei pm napoletani sullo scandalo rifiuti. La stessa inchiesta che martedì 27 maggio ha portato all'arresto, tra gli altri, anche di Malvagna e Rallo. Il quadro è chiaro, allora. Almeno agli occhi dei magistrati. Rallo, costi quel che costi, deve fare in modo che la 'roba', cioè la spazzatura, venga accatastata in qualche modo nei centri di stoccaggio e lavorazione gestiti da Impregilo, anche se questi sono pieni. Peggio, scoppiano. Tutto questo per non creare nuovi problemi all'allora commissario rifiuti Alessandro Pansa. Altrimenti sarebbero stati guai seri per Impregilo, perché rischiava di saltare l'accordo faticosamente raggiunto pochi giorni prima dall'azienda proprio con Pansa. "Il pericolo di una revoca", riassumono i magistrati,
"andava scongiurato, anche a costo di adottare comportamenti ricadenti nel rischio penale".

L'intesa, che passa sotto il nome burocratico di atto ricognitivo, stabilisce il diritto del gruppo Impregilo a vedersi rimborsati con denaro pubblico i costi sostenuti per realizzare il termovalorizzatore di Acerra (non ancora ultimato) e i tre impianti per la produzione di cdr (combustibile da rifiuti) di Caivano, Giuliano e Tufino. In totale fanno 389 milioni di euro. E questa è esattamente la cifra iscritta nei conti 2007 di Impregilo alla voce 'Progetti Rsu Campania'. Circa 321 milioni per l'inceneritore e altri 68 milioni per i tre centri di lavorazione del cdr, gli stessi che, secondo alcune perizie tecniche, non sarebbero in grado di funzionare correttamente.

L'azienda respinge in blocco la ricostruzione dei magistrati. "Nessun accordo", replicano fonti ufficiali di Impregilo. L'atto ricognitivo, secondo quanto spiegano i portavoce di Impregilo, sarebbe in realtà "un'imposizione del commissario di governo". Eppure, è proprio un documento ufficiale del gruppo a mettere in relazione gli accordi di dicembre con le valutazioni contabili degli impianti di smaltimento rifiuti. "Gli ammontari esposti", recita testualmente l'ultima relazione di bilancio Impregilo, "sono ritenuti recuperabili alla luce del contenuto dell'atto ricognitivo". In altre parole, senza l'accordo siglato con il commissario di governo sarebbe stato più difficile attribuire un valore certo alle attività campane. C'era il rischio concreto, quindi, che almeno una parte di quei 389 milioni si trasformassero in perdite. Quanto basta per dare un colpo, l'ennesimo, al bilancio della più importante azienda di costruzioni nazionale, un colosso da
2,6 miliardi di ricavi da tempo in sofferenza per il blocco dei cantieri delle grandi opere italiane. L'anno scorso, per dire, Impregilo si è aggrappata ai proventi di alcune redditizie attività sudamericane (gestione di autostrade in Brasile) per chiudere i conti con l'utile risicato di 40 milioni. E nel 2006, le perdite per 114 milioni legate alla catastrofica avventura in Campania erano state compensate solo grazie ad alcuni proventi straordinari. Troppo, davvero troppo per un'azienda quotata in Borsa e controllata, dopo l'uscita di scena (2006) della famiglia Romiti, da tre pezzi da novanta del capitalismo nazionale:
"andava scongiurato, anche a costo di adottare comportamenti ricadenti nel rischio penale".

A Napoli pure il percolato è oro
di Claudio Pappaianni
L'inchiesta della procura di Napoli sulla parte più inquinante e pericolosa dei rifiuti. Un liquido sparso deliberatamente nei corsi d'acqua e lungo le strade. A un costo altissimo

Percolato. È l'ultimo vocabolo del dizionario dei rifiuti finito nel linguaggio comune dei campani. È la parte liquida che la monnezza rilascia con la decomposizione: la sorgente dell'odore di morte che imprigiona interi quartieri. È anche la frazione più inquinante e pericolosa, che infiltra nelle falde le sostanze tossiche. Ma quello del percolato è anche l'ultimo scandalo su cui si concentrano le attenzioni della Procura di Napoli.

L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Aldo De Chiara, che ha portato all'arresto del braccio destro di Guido Bertolaso, Marta Di Gennaro, ha fatto luce sul destino di questo liquido micidiale. Agli atti dell'indagine ci sono le proteste di un sindaco "perché i camion percolano", ossia seminano una macchia nera sull'asfalto. La Di Gennaro, sempre lei, lo rassicurava mandando i carabinieri a controllare e a convincerlo che "percolavano poco". Ma a fare quei controlli erano i militari in forza alla Protezione civile. Gli altri, 'i nemici' di cui si parla nelle intercettazioni, erano i carabinieri del Nucleo tutela ambiente guidati dal generale Umberto Pinotti, di cui la Di Gennaro si spinge addirittura a chiedere la rimozione.

Quei camion non perdevano liquido per errore, lo scaricavano deliberatamente. E molti sapevano. Così, il nuovo filone di indagine sui rifiuti condotta dai pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo, ancora top-secret, ma che porterà presto a sviluppi di rilievo, è proprio sul destino del percolato in Campania. Un veleno che andrebbe trattato in impianti specializzati e che invece sarebbe stato sistematicamente sparso nei corsi d'acqua, nelle fogne o addirittura lungo le strade e nei campi. Ogni giorno, nelle discariche autorizzate dal Commissariato c'è un via vai di mezzi che aspirano il liquido nerastro dalle vasche per portarlo ai centri di bonifica. Ma lungo il percorso almeno la metà del carico finisce per essere smaltito illegalmente. Così ci guadagna la ditta che trasporta, che paga meno, e quella che smaltisce, che incassa lo stesso. Resta il fiume tossico, che penetra nel terreno e nelle acque e che nessuno si è curato di disinquinare.

Quello della mancata bonifica della Campania è uno scandalo nello scandalo. Per rimettere in sesto un territorio ammorbato da rifiuti, anche quelli tossici interrati per anni dalla camorra, nel 2001 il governo aveva istituito l'ennesimo commissariato. L'incarico fu affidato ad Antonio Bassolino, che era già commissario ai rifiuti. Un anno dopo, veniva siglato un accordo di programma con la Jacorossi Spa sponsorizzata dal ministero del Lavoro (allora retto da Roberto Maroni, ndr): 140 milioni di euro per rimuovere i veleni da 80 comuni. L'incarico fu affidato senza gara, grazie all'impegno della società di assumere 380 lavoratori socialmente utili. Lo prevede una legge dello Stato, che garantisce pure la gran parte degli stipendi per i primi tre anni. Una manna, che ha permesso alla Jacorossi di affidare senza alcun vincolo lavori in subappalto e tenersi, allo stesso tempo, gran parte di quegli operai fermi a giocare a carte, come loro stessi hanno
denunciato.

Alla scadenza dei tre anni, il licenziamento e la cassa integrazione: paga sempre lo Stato. A Jacorossi, intanto, sono stati liquidati i primi lavori, ma a un prezzo troppo caro, specie per l'ambiente. L'incarico aveva scadenze ben precise e un rimborso garantito solo a operazioni eseguite. C'era poco tempo da perdere. Così, le scorie raccolte sarebbero state spacciate per scarti di edilizia per poi finire, sistematicamente, in cave della provincia di Caserta e Napoli non molto lontano da quelle di Chiaiano. Andavano separati, trattati, smaltiti ognuno secondo le procedure previste: la plastica con la plastica, i copertoni di auto con i copertoni, l'amianto con l'amianto. E invece, oltre un milione di tonnellate di monnezza sarebbe finita sepolta sotto strati di terreno in luoghi non certo idonei e, anche lì, il percolato ha fatto la sua strada infiltrandosi fin dove ha potuto. Hanno documentato tutto gli uomini del Noe di Napoli guidati dal Maggiore
Giovanni Caturano e nei giorni scorsi la Procura ha notificato il provvedimento di chiusura indagini a 12 tra ex dirigenti della Jacorossi e delle ditte subappaltatrici.

Secondo gli inquirenti, l'imperativo per i vertici della società romana era solo uno: 'Fatturare! Fatturare! Fatturare!'. I rifiuti andavano rimossi e portati ovunque, purché il Commissariato pagasse. Anche più del doppio di quanto dovuto: "Non valgono così tanto, lei lo sa: valgono la metà. Ma al Commissariato non facciamo conoscere le quotazioni al ribasso, sennò le royalties su cosa le prendiamo?", dicono tra di loro al telefono. Dei circa 60 milioni di euro già versati alla Jacorossi, almeno 46 sarebbero frutto di quello che per i carabinieri è stata una 'gestione illecita'. In pratica: frutto di uno smaltimento di rifiuti che in realtà sono stati solo spostati e di una bonifica dei terreni mai effettuata.

Le indagini si sono concluse nel 2006, ma ci sono voluti due anni per i provvedimenti. Un periodo durante il quale per la Jacorossi è arrivato anche un premio: un nuovo incarico da 101 milioni, oltre a 20 milioni come risarcimento per il mancato rispetto del contratto da parte del Commissariato. E quando all'inizio dell'anno Palazzo Chigi ha deciso di togliere a Bassolino l'autorità sulla bonifiche, la Jacorossi ha affidato il timone delle attività a Ciro Turiello, considerato un fedelissimo del governatore che lo volle accanto a sé nel Commissariato, salendo tutti i gradini fino a diventare vice di Bertolaso nel 2007. Nell'ultimo anno, Turiello è stato amministratore delegato di Asia, la società napoletana per i rifiuti con 2.200 dipendenti e una percentuale di raccolta differenziata di poco sopra il 10 percento, nonostante spenda 1,5 milioni all'anno solo per il leasing degli automezzi (parte dei quali forniti dalla Oram srl di proprietà di sua
cognata, ndr). L'uomo giusto per il piano della Jacorossi: entrare nel mercato degli appalti comunali per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. In Campania si ricicla tutto, tranne che la spazzatura.
Gli atti giudiziari descrivono summit nel comando dei vigili . E l'intervento della signora Iovine per sostenere la famiglia di Giuseppe Russo, detto 'Peppe il padrino'. Un nome che ricorre spesso nel dossier che ha sciolto il Comune. Viene citato in merito agli appalti assegnati alle aziende di Mario Cosentino, cognato di 'Peppe il padrino' e fratello del neosottosegretario all'Economia Nicola, stella nascente della politica campana.

L'intelligence sostiene che 'o Ninno abbia un altro punto di forza: la supervisione del traffico di rifiuti nel Casertano. Ma è un elemento che non ha trovato riscontri giudiziari: nessun pentito ne vuole parlare. Non è un caso. Da dieci anni la spazzatura è l'affare più ricco in Campania, ma viene gestito da un'intesa triangolare: camorra, politici locali e istituzioni statali. Un patto cementato dall'emergenza perenne. L'unico squarcio su questo abisso lo aveva fornito Michele Orsi, con la decisione di rispondere alle accuse per cui era stato arrestato. Orsi si riteneva una vittima, costretto a convivere con le pretese di partiti e boss, e che passa da Forza Italia ai ds per puro calcolo. Non era un pentito, si era limitato a ribattere agli addebiti descrivendo il ruolo dei politici locali negli appalti della nettezza urbana nel Casertano. Nei suoi verbali compare il nome di Mario Landolfi, ex ministro di An accusato di corruzione che ha sempre
respinto ogni coinvolgimento, e di Cosentino, esponente di Forza Italia, che non ha ricevuto contestazioni. Degli uomini delle istituzioni Orsi invece non ha parlato.

Nel 2004 era stato intercettato mentre conversava con il viceprefetto Ernesto Raio, capo di gabinetto del Commissariato. Lui, imprenditore dei rifiuti e proprietario di discariche, va a pranzo assieme al prefetto Corrado Catenacci, incaricato dal governo Berlusconi di risolvere il problema, e a Donato Ceglie, il più celebre pm casertano in tema di ecomafie. Secondo Raio, proprio in quel pranzo si sarebbe discusso dell'inserimento dell'architettoClaudio De Biasio nella struttura governativa: quello che Orsi al telefono definiva "la persona nostra da mettere al Commissariato". Ci riescono. Catenacci sostiene che a convincerlo sull'architetto fu il parere del procuratore Ceglie. De Biasio è stato poi arrestato nel 2007, quando era diventato vice di Guido Bertolaso su designazione dell'allora ministro Pecoraro Scanio. Orsi su queste vicende ha negato ogni illecito. Se mai avesse accettato una piena collaborazione, forse queste sarebbero state le prime
domande alle quali gli avrebbero chiesto di rispondere. Ma 18 proiettili lo hanno fatto tacere per sempre, lasciando intatto il mistero sulle relazioni più alte.
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Ultimo aggiornamento ( domenica 22 giugno 2008 )