La Terra che è viva... Quanto resisterà ai nostri attacchi?
Scritto da msirca   
giovedì 16 giugno 2022

Gerico, situata nei Territori Palestinesi lungo la Valle del Giordano, è conosciuta fin dall’antichità come la città delle Palme.

Per i cristiani Gerico evoca l’episodio biblico in cui Gesù entra in città dopo aver attraversato il deserto, mentre i musulmani trovano nel Corano riferimenti ai benefici dei suoi datteri. Un detto antico riporta l’importanza della palma e dei suoi molteplici usi in ogni aspetto della vita quotidiana: “…i datteri per l’alimentazione, le fronde per la preghiera e le lodi, le foglie per le capanne, la rafia per la realizzazione di corde, il tronco per i soffitti…”.

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La ridotta disponibilità di acqua rappresenta un enorme problema ambientale, ma anche politico e sociale. La maggior parte delle zone con disponibilità d’acqua sono state occupate da Israele. Secondo quanto ci è stato riferito, per legge ogni palestinese ha a disposizione 1/6 dell’acqua di un israeliano e la paga 4 volte tanto. Scavare nuovi pozzi è illegale ma tutti scavano, anche come reazione all’ingiustizia sociale, non pensando alle conseguenze ambientali. Creare nuovi impianti di palme significa mettere a coltura terre desertiche palestinesi che altrimenti potrebbero essere occupate dagli insediamenti israeliani. Paradossalmente, piantare nuovi palmeti diventa un modo per difendersi dall’occupazione, pur sapendo che si commette un errore ambientale e sociale irreparabile.

Nella regione la questione dell’acqua rappresenta un argomento tabù a tutti i livelli, di cui si parla sottovoce sperando che sia qualcun altro ad affrontare il problema. Un produttore di palme della prima ora, Arbi, ci confida: “Con la coltivazione intensiva di palme stiamo commettendo un crimine”. Arbi considera che gli impianti dovrebbero essere regolati da un organismo pubblico/privato, perché la posta in gioco è troppo alta.  Alcuni investitori di Gerico già stanno vendendo, perché hanno capito che l’acqua sta finendo e non sarà Dio a salvarli

 

Gerico, situata nei Territori Palestinesi lungo la Valle del Giordano, è conosciuta fin dall’antichità come la città delle Palme.

Per i cristiani Gerico evoca l’episodio biblico in cui Gesù entra in città dopo aver attraversato il deserto, mentre i musulmani trovano nel Corano riferimenti ai benefici dei suoi datteri. Un detto antico riporta l’importanza della palma e dei suoi molteplici usi in ogni aspetto della vita quotidiana: “…i datteri per l’alimentazione, le fronde per la preghiera e le lodi, le foglie per le capanne, la rafia per la realizzazione di corde, il tronco per i soffitti…”.

Eppure oggi nella zona di Gerico è difficile ritrovare le tracce di questa relazione privilegiata tra l’uomo e le palme da dattero. Al visitatore si presentano solo palmeti in monocultura intensiva, spesso di investitori che hanno visto nel mercato internazionale dei datteri Medjool (la cultivar più diffusa) un affare estremamente vantaggioso. Poche antiche varietà resistono solo nei giardini familiari, per il consumo fresco e il mercato locale stagionale.

Da queste parti l’ambiente è desolante, il terreno è spesso cosparso dei resti della plastica delle coltivazioni precedenti e da altri rifiuti. L’odore di plastica bruciata è onnipresente. L’idea di base di questi imprenditori agricoli sembra essere quella di acquisire terreni con impianti giovani o da impiantare, sfruttarli per almeno un trentennio e poi lasciarli al loro destino.

Come si è arrivati a questa situazione?

La presenza delle palme nella Valle del Giordano, costante per secoli, conosce un declino nel XVIII sec. fino a quasi scomparire nel diciannovesimo. Alcuni viaggiatori della metà del 1800 scrivevano: “Un albero di datteri stentato era l’unico monumento ancora esistente nella città delle palme”, oppure “Si ha l’impressione che la palma da dattero sia ora molto scarsa in Palestina”.

I palmeti scompaiono, per ragioni a noi sconosciute. Al loro posto si diffonde l’orticoltura, l’agrumicoltura e la coltivazione di altre specie da frutto, grazie anche all’introduzione di nuove tecniche agricole e d’irrigazione. A mano a mano che l’agricoltura industriale si diffonde, però, l’acqua di falda si riduce sensibilmente diventando più salina, limitando così la produzione agricola.

Questa è la ragione per cui, negli anni ’60, gli israeliani iniziano a impiantare palme da dattero nella Valle del Giordano, più resistenti all’acqua salina. I datteri Medjool diventano rapidamente la cultivar più diffusa, per via della qualità del frutto e della sua conservabilità, che ne fanno un prodotto faro dell’esportazione.

I Palestinesi iniziano a investire nella produzione di Medjool solo dalla fine degli anni ’90, poiché prima non ne avevano il permesso. La cultivar era protetta dagli israeliani che ne controllavano il mercato e i palmeti impiantati fuori dalle regole erano estirpati.

Oggi nel governatorato di Gerico sono presenti circa 235.000 palme di Medjool, in progressiva espansione, appartenenti a Palestinesi, mentre gli israeliani hanno smesso di piantare nuovi palmeti.

La ridotta disponibilità di acqua rappresenta un enorme problema ambientale, ma anche politico e sociale. La maggior parte delle zone con disponibilità d’acqua sono state occupate da Israele. Secondo quanto ci è stato riferito, per legge ogni palestinese ha a disposizione 1/6 dell’acqua di un israeliano e la paga 4 volte tanto. Scavare nuovi pozzi è illegale ma tutti scavano, anche come reazione all’ingiustizia sociale, non pensando alle conseguenze ambientali. Creare nuovi impianti di palme significa mettere a coltura terre desertiche palestinesi che altrimenti potrebbero essere occupate dagli insediamenti israeliani. Paradossalmente, piantare nuovi palmeti diventa un modo per difendersi dall’occupazione, pur sapendo che si commette un errore ambientale e sociale irreparabile.

Nella regione la questione dell’acqua rappresenta un argomento tabù a tutti i livelli, di cui si parla sottovoce sperando che sia qualcun altro ad affrontare il problema. Un produttore di palme della prima ora, Arbi, ci confida: “Con la coltivazione intensiva di palme stiamo commettendo un crimine”. Arbi considera che gli impianti dovrebbero essere regolati da un organismo pubblico/privato, perché la posta in gioco è troppo alta.  Alcuni investitori di Gerico già stanno vendendo, perché hanno capito che l’acqua sta finendo e non sarà Dio a salvarli.

 

La Fondazione Slow Food per la Biodiversità, nell’ambito di un progetto della Fondazione Giovanni Paolo II, sta cercando di mettere in valore il lavoro dei contadini che ancora preservano le ormai rarissime varietà locali di datteri e la biodiversità in generale. Parliamo di coloro che oltre a produrre datteri coltivano l’orto, gli agrumi e praticano la rotazione con il foraggio per gli animali. A breve, sarà avviata una Comunità del Cibo composta da piccoli produttori di datteri a Jiftlek, villaggio di 5000 persone situato nella parte nord della Valle del Giordano.  Il villaggio e le sue terre si trovano in zona “C”, sotto controllo civile e militare israeliano, dunque maggiormente esposti a espropri per la creazione di nuovi insediamenti. Ciò significa che i produttori non hanno il diritto di costruire, poiché ottenere il permesso dalle autorità israeliane preposte è praticamente impossibile. Sono invece sottoposti a continue incursioni, volte a smantellare i loro capannoni o per semplici “esercitazioni” militari notturne nelle loro case e campi.

A differenza di Gerico, Jiftlek presenta una maggiore biodiversità poiché i contadini della zona producono anche ortaggi, foraggio, hanno frutteti e bestiame. Molti di loro, agricoltori da generazioni, sono rifugiati del 1948 e non possiedono la terra che coltivano, che invece appartiene a proprietari terrieri per cui lavorano come mezzadri. Nonostante ciò sono loro che conoscono la terra, capiscono l’ecosistema e si preoccupano per le generazioni future.

Da loro partiamo per tentare di dimostrare che c’è ancora una speranza per un’agricoltura sostenibile, rispettosa di un ambiente difficile e talvolta inospitale. La conservazione delle risorse naturali, a cominciare dall’acqua, è un elemento sentito dai piccoli agricoltori che sono pronti a mettersi in gioco per dare continuità alla loro pratica agricola, frutto di tradizione, di cultura ma anche di riscatto sociale e di speranza per il futuro.

di Nazarena Lanza (Slow Food) e Francesco Sottile (Università degli Studi di Palermo)

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Ultimo aggiornamento ( giovedì 16 giugno 2022 )